top of page

SUGLI STESSI SENTIERI, DOPO 150 ANNI

Nel 1863, un omicidio sconvolse le montagne tra la valle Staffora e la val Curone. Oggi proviamo a ripercorrere quegli stessi sentieri.

Una tiepida sera dello scorso ottobre nella piazza di Volpedo, un brasato che si scioglie in bocca, del buon barbera che schiarisce le idee. Tre amici, Giuseppe, Andrea e Cristiano che discutono dei nuovi progetti di “Terre di Marca Obertenga” e di “A un passo dalla vetta” che vorrebbero mettere in pista per il nuovo anno. Cristiano immagina nuovi itinerari da raccontare e Giuseppe gli chiede se ha mai percorso quei sentieri a cavallo tra l’alta Val Curone e la Valle Staffora, teatro di una tragica vicenda avvenuta nel 1863: la strage di un’intera famiglia contadina, attribuita a un oste di Varzi, detto Pippone. Cristiano, che non aveva mai sentito parlare di questi fatti s’incuriosisce e, dopo qualche settimana, raccolto la documentazione che ricostruisce dettagliatamente la storia, s’inerpica con il padre e un compagno occasionale, per ripidi e inestricabili sentieri, alla ricerca delle tracce sopravvissute al tempo e all’incalzare di una vegetazione invadente non più contrastata dalla presenza contadina.

Qualcuno di voi dirà che Varzi è fuori dal nostro territorio e quindi vi preveniamo. Per prima cosa vi ricordiamo che i confini stanno nella testa della gente e comunque il delitto avvenne entro il confine del mandamento di San Sebastiano Curone, a pochi metri da quello di Bobbio. Una prossimità che determinò anche conflitti di competenza territoriale tra magistrati, presumibilmente impegnati ad acquisire meriti presso le autorità del neonato Regno d’Italia. Forse, indirettamente, fu proprio questa conflittualità a portare alla condanna di Pippone e di suo figlio a seguito di indagini lacunose e di un processo frettoloso.

Una corsa contro il tempo ci consente di regalarvi questo particolare racconto in anticipo sul nuovo anno.

 

Giuseppe Siciliano

www.marcaobertenga.com

 

LA VICENDA: CORREVA L’ANNO 1863

Il 27 marzo 1863, sulle montagne che separano la valle Staffora dalla val Curone, accadde un tragico fatto di sangue.

La famiglia Tamburelli viveva a Cà del Monte, un cascinale isolato che solo per poche decine di metri ricadeva nella provincia di Alessandria, a circa metà strada tra le frazioni di Dego e di Castagnola.

Teresa Botti vedova Tamburelli, di 63 anni, aveva due figli: Giuseppe, di 27 anni, viveva con lei nella casa di Cà del Monte, assieme alla moglie, Teresa Fassini, 24 anni e al loro bambino di pochi mesi, mentre l’altro figlio stava svolgendo il servizio militare a Pavia. La partenza del figlio per il militare aveva di molto indebolito la famiglia, che vivendo di agricoltura disponeva di numerosi terreni e bestiame, tanto che la madre cercò di trovare un surrogante per il figlio (ovvero un uomo che lo sostituisse al servizio militare, pratica ai tempi consentita) in modo che questi potesse tornare ad aiutare la famiglia.

La mattina del 28 marzo 1863, all’alba, il bracciante Bertella Domenico, detto "Il merlo", salì da Caposelva – piccola frazione nei pressi di Varzi – alla costa dominata da una montagna nota come "il Poggio di Dego", poi scese alla volta di Cà del Monte, dove avrebbe dovuto lavorare dei terreni per conto della famiglia Tamburelli e, sentendo il pianto di un bambino e notata la porta socchiusa, mise la testa all’interno trovandosi di fronte a una scena raccapricciante. Giuseppe Tamburelli e la moglie erano riversi a terra in una pozza di sangue, l’uno addosso all’altra, mentre la madre Teresa Botti giaceva su di un seggiolone con la testa riversa sullo schienale.

Il Bertella corse immediatamente a chiedere aiuto e raggiunse la frazione di Castagnola, dove assieme ad un contadino corse dal parroco, don Severino Zerba, che informò le autorità competenti. Le indagini presero avvio nei giorni immediatamente successivi al delitto e, dopo aver appurato che gli omicidi avvennero con l’utilizzo di una scure, una zappa e di una forca, si indirizzarono subito verso alcuni dei banditi che avevano trovato rifugio nelle montagne della zona. Ben presto, però, dalle testimonianze dei paesani, emerse la figura di Giuseppe Malaspina, per tutti Pippone, un oste di Varzi di 48 anni su cui finirono per convergere tutti i sospetti.

Pare che Teresa Botti, nella sua opera di raccolta di fondi per surrogare il figlio (l’importo necessario per la surrogazione era 3000 lire) si recò a Varzi il giorno del delitto per trattare con un tizio di Bognassi e lo stesso giorno guadagnò le ultime 1000 lire vendendo un distinto paio di buoi. Fermatasi per un piatto di minestra all’osteria di Pippone, che si trovava “al principio di Varzi dalla parte di ponente”, pare che la donna si lasciò scappare qualche parola di troppo sulla vicenda della surrogazione del figlio e sui soldi che aveva racimolato, che nella casa di Cà del Monte, dopo il delitto, non vennero più ritrovati.

Le testimonianze indicarono Pippone come l’assassino: furono in molti a sostenere di averlo visto salire da Casa Bertella, frazione sulla strada per Caposelva, assieme al figlio e al loro cane, alla volta del Poggio di Dego, per poi raggiungere Cà del Monte. Altri fecero notare la sua assenza dall’osteria la sera del delitto, dove fece ritorno solo a tarda ora proveniente dall’esterno e, quando Pippone e il figlio furono arrestati, aumentò a dismisura anche il numero dei loro accusatori.

Il 1° marzo 1864, in Alessandria, si aprì il processo contro Giuseppe e Angelo Malaspina: la giuria riconobbe i Malaspina colpevoli a maggioranza condannando il figlio ai lavori forzati a vita e il padre, Pippone, alla pena di morte, assegnandogli tre giorni di tempo per ricorrere in Cassazione. Il ricorso venne rigettato e Pippone venne condannato alla forca nella piazza Maggiore di Alessandria: fu l’ultima sentenza capitale eseguita mediante impiccagione.

La triste vicenda di questo omicidio e delle indagini che seguirono, portando alla condanna di Pippone, sono state raccontate dal prof. Giuseppe Bonavoglia nel libro “L’ultima trista impresa di Pippone di Varzi”, dal quale ho chiaramente preso spunto per raccontare in sintesi l’accaduto e che vi invito a leggere per avere uno spaccato della società dell'epoca nei nostri piccoli villaggi di montagna. Non possiamo sapere con certezza se, effettivamente, Pippone fu l’assassino di Cà del Monte, perché condannato al termine di un processo (sommario) prettamente indiziario, dove poco alla volta emersero gelosie, prepotenze e minacce che finirono per "inquinare" la scena del delitto. Certo, questo Pippone non doveva essere uno stinco di santo,da quello che di lui si diceva. Possiamo però ritornare per un attimo con l’immaginazione a quegli anni e immergerci nella vita quotidiana di una piccola valle sconvolta da una così grande tragedia.

Ad esempio, immaginiamo di ripercorrere gli stessi sentieri di Pippone…

 

SULLE ORME DI PIPPONE DI VARZI, OGGI

Il bivio che dalla strada provinciale Varzi-Fabbrica Curone conduce alle frazioni di Casa Bertella e Caposelva si trova poco prima dell’arrivo a Varzi, da cui ci separa solo il fiume Staffora. Pippone, il figlio Angelo e il cane, partiti dall’osteria - che si trovava nella parte del paese vicina al Reponte - dovettero attraversare il fiume, prima di giungere qui.  

Oltre a essere ancora un discreto camminatore, mio padre è anche una persona incuriosita dalle questioni riguardanti le nostre valli, così ha voluto leggere la storia di Pippone da Varzi appassionandosi a tal punto da voler venire con me: padre e figlio, mancherebbe solo il cane per una ricostruzione perfetta della serata del 27 marzo 1863. Neanche a dirlo, nel tratto di asfalto che precede Casa Bertella, ci voltiamo e vediamo un cagnolino bianco seguirci a distanza: ci scappa una risata, sembra uno scherzo! Anzi, dopo poco prende fiducia e, una volta raggiunti, si mette davanti a noi a fare strada. 

Perfetto, ci siamo tutti: la ricostruzione della trista impresa di Pippone può avere inizio.

A Casa Bertella non entriamo neanche in paese: nei pressi di una cappelletta votiva prendiamo la strada in salita, che passa accanto ad alcune case con le persiane chiuse e i piani bassi ad uso stalla. E’ da qualcuna di queste finestre che, probabilmente, alcuni dei grandi accusatori di Pippone, tra cui Carlo Bertella, si sporsero sentendo i cani abbaiare, riconoscendo le figure di Pippone e del figlio dirette verso Cà del Monte.

Nei pressi dell’ultima casa del paese, l’asfalto lascia spazio alla sterrata e ci pone subito di fronte a un bivio. Chiediamo informazioni a un signore che se ne sta seduto nel cortile di casa, ma non otteniamo risposte soddisfacenti: oltre ad essere sordo, dice di non sapere dove portano quelle strade, così – suggeriti dal cane, che si lancia in una folle corsa davanti a noi - prendiamo quella di sinistra che corre in piano in direzione del paese di Varzi, che possiamo ammirare adagiato sulla sponda dello Staffora. Di fronte a noi, comincia a materializzarsi in lontananza una piccola casetta sul cocuzzolo di una montagna: la vediamo spuntare a intervalli regolari dietro ai versanti delle montagne che superiamo, chiedendoci cosa possa essere. 

Giunti quasi ai piedi della casetta, un’ultima salita ci conduce in uno straordinario punto panoramico, totalmente inaspettato: una specie di balcone con vista sulle grigie montagne di argilla arenaria tipiche di questa zona e un paesino aggrappato ad una montagna sullo sfondo, Fontana di Nivione. E’ un luogo meraviglioso e restiamo qui qualche minuto, sull’orlo del dirupo, ad ammirare il vuoto sotto ai nostri piedi. Il sentiero si snoda in discesa sulle montagne grigie, alla volta del piccolo paese, che pare non essere solo: si vede infatti, poco più a destra, spuntare il campanile di una chiesa, anzi della chiesa di Castello di Nivione.

Il cagnolino corre veloce in direzione della casetta e lo seguiamo: è un edificio storico dei partigiani nelle vicinanze del Monte Crocetta, al suo interno un materasso e due sedie di paglia. Scendiamo la scaletta e facciamo il punto della situazione: proseguendo sulle montagne di argilla, oltre i due villaggi, si arriverà sicuramente sul crinale nelle vicinanze del Poggio di Dego, ma non crediamo sia questa la strada percorsa da Pippone. E allora indietro, torniamo al bivio di Casa Bertella, dove imbocchiamo l’altro sentiero, quello in salita.

La salita è ripidissima e in alcuni punti ricoperta di neve e fango, sembra non finire mai; voltandosi, però, si possono ammirare degli splendidi panorami di Varzi. Davanti a noi, il cagnolino trotterella e, a tratti, si lancia in corse pazze giù per i versanti delle montagne, quando sente l’odore di qualche altro animale passato da quelle parti: come ben potrete immaginare, questi boschi sono un via vai di sentierini creati da cinghiali, caprioli, tassi e lepri. Poi ritorna, con la lingua penzoloni e riprende ad aprirci il sentiero, fermandosi ogni tanto, voltato verso di noi, per vedere se arriviamo.

Quando la strada inizia a spianare siamo quasi arrivati in cima, nei pressi del Poggio di Dego, proprio quello descritto nel libro di Bonavoglia. Un raggio di sole che illumina il sentiero di fronte a noi ci annuncia l’uscita dal bosco di castagni, in un punto dove il sentiero incrocia quello proveniente da Nivione che, prima, avevamo abbandonato. Da qui, non si vede più Fontana di Nivione, ma il poco distante Castello di Nivione, con la sua chiesa. Alle sue spalle, Monteforte e, ancora più in alto le antenne del Penice.

Camminiamo sul crinale, sotto a un sole forte e ad un cielo azzurro che quasi sembra primavera e dopo una ripida salita arriviamo in un punto in cui le strade si dividono e da cui si vedono, affacciandosi leggermente tra gli alberi, i tetti delle case della frazione di Dego e il profilo del campanile di Castagnola: Cà del Monte non dovrebbe essere così lontana.

Sono convinto che fino a qui, Pippone seguì questo sentiero. Ma a questo bivio ho l’impressione che lui continuò dritto, mentre invece noi, spinti dalla vista dei tetti delle case di Dego svoltiamo a destra, percorrendo il crinale in direzione di Castagnola. Dopo una ripida discesa nel bosco, incontriamo un sentiero appena accennato sulla sinistra, segnalato solo a tratti, che ci conduce a pochi passi dalle case.

Il cagnolino si insospettisce e ora ci segue a distanza: in lontananza i cani del Dego incominciano ad abbaiare e, tra poco, tutti sapranno che c’è gente nuova in paese. Quando arriviamo, si scatena l’inferno, tanto che il nostro compagno di viaggio è visibilmente spaventato dal ringhio di cani di taglia ben più grossa. Una signora, uscita nel cortile di casa per sgridare i cani, ci vede arrivare e le facciamo segno di fermarsi. Le chiediamo della storia di Pippone, lei fa cenno di sì col capo e cerca di spiegarci dove si trova Cà del Monte, con l’aiuto del marito che nel frattempo l’ha raggiunta. Le indicazioni dei due, però, non sono molto chiare: lasciamo Dego camminando sull'asfalto e, al bivio, teniamo la strada bassa, quella per Castagnola. Cerchiamo un luogo simile a quello descrittoci dalla signora e dal marito, inutilmente. Ci spingiamo fino al rio, che attraversiamo, ma ci rendiamo conto che ci stiamo allontanando troppo dalla nostra meta. Le uniche pietre che abbiamo visto sono quelle ammucchiate al lato della strada a formare una specie di muretto, ma capiamo subito che non possono essere quelli i ruderi di Cà del Monte. 

Per fortuna, grazie alle dritte che mi aveva dato a suo tempo l’amico Lorenzo, riusciamo finalmente a raccapezzarci e a intuire dove possa essere Cà del Monte. Torniamo al bivio e prendiamo la strada alta, quella per Varzi e Nivione. Circa seicento metri dopo il bivio, nei pressi di una curva in cui numerosi sassi appuntiti sembrano affacciarsi sulla strada, guardando in basso, tra gli alberi spogli, scorgiamo i resti di una costruzione: finalmente abbiamo trovato Cà del Monte!

Scendiamo sotto alla strada, tra gli alberi e vediamo i resti di quattro mura ancora in piedi: ci hanno detto che sono quelle della stalla della famiglia Tamburelli. E' qui che tenevano, probabilmente, il numeroso bestiame di cui disponevano e per la cura del quale la signora Teresa Botti tentava di portare a termine la surrogazione del figlio. Della casa dove si compì il misfatto non rimane più nulla, solo qualche grande sasso ricoperto di muschio accanto alla stalla in direzione di Nivione. E’ crollata da quasi cinquant’anni, si dice.

Guardando bene il punto dove si trova Cà del Monte, non tardo a immaginare che Pippone, giunto al Poggio di Dego, anziché percorrere il crinale alla volta del paese, scese dritto per dritto sull’altro sentiero, che non deve arrivare distante da qui. I ruderi del cascinale sono in un luogo così isolato che l’assassino ebbe tutto il tempo per compiere le sue atrocità, non lo dubito.

Lasciamo i ruderi di Cà del Monte tornando verso Dego, che attraversiamo per poi prendere una stradina che sale alla volta del crinale, da cui si gode di una vista meravigliosa, mentre il cane scorrazza nei prati: per il ritorno vogliamo riscoprire un altro dei sentieri raccontati da Bonavoglia nel libro, quello percorso da Domenico Bertella detto "Il merlo" con partenza da Caposelva. A Dego ci hanno spiegato dove si trova l’imbocco di questo sentiero, che però fatichiamo a trovare allontanandoci ulteriormente. Probabilmente la strada che stiamo seguendo è quella per Casa Galeotti e Ponte Crenna, fortuna che incontro un amico cacciatore che mi dice che stiamo andando nella direzione sbagliata. Torniamo così sui nostri passi e, giunti al punto in cui siamo arrivati sul crinale, proseguiamo per pochi metri in direzione di Varzi ed eccolo, l’imbocco della stradina che scende a Caposelva, segnalato in bianco-rosso. 

E’ tardi ed iniziamo a essere stanchi, tutti e tre. Ci fermiamo all’inizio del sentiero e frughiamo nello zaino, dove abbiamo qualche biscotto, che dividiamo con il nostro compagno di viaggio, che ha una gran fame da quello che vediamo. Forse non pensava nemmeno lui che seguirci avrebbe comportato percorrere tutta questa strada: a stare nella sua cuccia forse avrebbe fatto un affare migliore! Non manca molto, per fortuna. Ci hanno detto che da Dego a Caposelva è breve, ed effettivamente è così. Il sentiero, seppur percorso in discesa, ricalca in tutto e per tutto quello che abbiamo preso a Casa Bertella per salire al Poggio del Dego, anzi forse è addirittura più ripido. La neve si alterna al fango e alle foglie, che formano uno strato morbido su cui cadere è un attimo. Quando arriviamo in vista dei primi panorami di Varzi, ci rendiamo conto di essere ormai prossimi all’arrivo ed effettivamente, dopo poco sbuchiamo tra le case di Caposelva, davanti ad una fontana-lavatoio e nei pressi di una caratteristica chiesetta. Mentre percorriamo l’asfalto in direzione dell’auto, pensiamo a cosa farà il nostro amico cane: ci ha seguito fino ad ora, sarà un problema salire in macchina e lasciarlo lì. Eppure non è il nostro, avrà un padrone. Superata Casa Bertella, nella stessa curva dove ci aveva raggiunto all’andata, il cagnolino sparisce, risolvendo così tutti i nostri problemi. Effettivamente, guardando bene, là in alto c’è una casa, è da lì che probabilmente è arrivato ed è tornato. E senza saperlo ha avuto un ruolo da protagonista nella fedele ricostruzione della “trista impresa di Pippone da Varzi”, 150 anni dopo!

 

L'itinerario in breve

PARTENZA E ARRIVO: SP Fabbrica Curone-Varzi, bivio Casa Bertella-Caposelva

TAPPE INTERMEDIE: Casa Bertella, Casa dei partigiani, Poggio del Dego, Dego, Cà del Monte, Caposelva

LUNGHEZZA DEL PERCORSO: circa 13,5 km

TEMPO DI PERCORRENZA: intorno alle 5 h.

SEGNAVIA: a tratti, segnavia bianco-rosso. Ma è impossibile basarsi esclusivamente su quello.

A un passo dalla vetta
bottom of page