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L'UOVO FUORI DALLA CAVAGNA

Con le ciaspole da Capanne di Cosola al Monte Carmo. Devastante, ma meraviglioso

PARTENZA: Capanne di Cosola (mt. 1493)

ARRIVO: Monte Carmo (mt. 1651) 

LUNGHEZZA DEL PERCORSO: oltre 14 km

TEMPO DI PERCORRENZA: 7 h. circa
SEGNAVIA: bianco-rosso 200

 

 

"Quando ti chiederanno cosa significa avere la lingua fuori dalla stanchezza, ricordati questo momento!!"

Questa frase l'ho detta ieri a Francesca, sulla strada del ritorno, quando eravamo, più che a un passo dalla vetta, "a un passo dalla morte". Mancava solo il prete che venisse a darci l'ultimo saluto, distrutti. Camminavamo con la testa bassa, senza parlare, trascinando i bastoncini. Lei ogni tanto alzava la testa per dire "Muerta!", io la guardavo e mi scappava da ridere, nonostante fossi evidentemente troppo stanco per farlo. Eh si, ci siamo detti, "stavolta abbiamo fatto l'uovo fuori dalla cavagna"!!

La colpa è mia, come sempre.

Quando ci siamo messi d'accordo per ciaspolare, la sera prima, le ho chiesto se voleva fare uno dei soliti giri nei dintorni di Caldirola, o se voleva provare un percorso nuovo, dalle Capanne di Cosola fino al Monte Carmo, il monte che sovrasta Carrega Ligure. Nuovo per lei, ma anche per me, perché con la neve questa escursione non l'avevo mai fatta. Lei mi ha approvato la proposta, "così pubblichi un itinerario nuovo sul blog"!

Ero felice e allo stesso tempo eccitato per il giro che avremmo fatto, perché immaginavo già la bellezza di quello che i nostri occhi avrebbero potuto vedere, e perché sarei stato insieme a lei.

Giornata con Francesca=giornata divertente, di solito è così.

E allora non mi sono interessato più di tanto della lunghezza del percorso. Sapevo che saremmo stati sui 14 km, quindi ci sarebbe voluta tutta la giornata, ma non l'ho vista come una cosa troppo preoccupante.

Il ritrovo è a San Sebastiano, dobbiamo svallare e andare in val Borbera e così ci vediamo un po' prima. La trovo già in macchina che mi aspetta, sale da me con zaino, borse e borsine e partiamo subito, ci aspetta una buona oretta di macchina. La strada è lunga e siamo ancora un po' assonnati, ma cerchiamo di rimanere svegli parlando un po'. Attraversiamo tanti piccoli paesini che lei non ha mai visto, finché - superato Cabella - la strada si restringe ed inizia a salire. Ignoriamo il bivio per Dova prima e quello per Carrega poi e rimaniamo sulla strada che ci porterà al paese di Cosola. Superato Cosola, la strada diventa praticamente ad una corsia e si arrampica sulle pendici del Monte Ebro e del Monte Chiappo fino ad arrivare al valico di Capanne di Cosola, al confine tra le province di Alessandria e Piacenza. Nei pressi dell'albergo, ci infiliamo lungo la strada che conduce a Bogli e Artana, ancora sporca di neve, e la percorriamo per un tratto, fino ad arrivare al punto di partenza della nostra escursione. Parcheggio lungo la stradina, scendiamo e ci prepariamo: zaino, scarponi, ciaspole, occhiali da sole e macchina fotografica.

Scavalchiamo la neve ammucchiata ai lati della strada e ci incamminiamo lungo il sentiero, che inizialmente sale sotto agli alberi. Davanti a noi, i segni di qualche motoslitta che ci ha preceduto, ma anche alcuni passi di ciaspolatori. Usciamo dal bosco e vediamo di fronte a noi la salita al Monte Cavalmurone, tutta a cielo aperto, tutta in cresta, esattamente sul confine tra Piemonte ed Emilia. C'è un sole meraviglioso, e nonostante l'aria sia piuttosto fresca, possiamo sentire le nostre facce scaldarsi fino a bruciare, sotto al sole. Salendo, vediamo sulla destra un ampio panorama dell'Alta Val Borbera, dove la neve già se ne è andata tutta, mentre voltandoci a sinistra, possiamo ammirare il Monte Lesima, stracolmo di neve, e poco più avanti il Monte Alfeo con la sua caratteristica forma a punta.

La neve è fresca, ci rendiamo conto che negli ultimi giorni ne deve essere caduta dell'altra, d'altra parte qui siamo a 1.500 metri. La neve così morbida ci fa quasi venire voglia di buttarci per fare qualche stampino, come l'ultima volta che siamo andati a ciaspolare insieme. "Lo facciamo al ritorno", le dico, ignorando che al ritorno non avremmo avuto nemmeno la forza di camminare, figuriamoci quella di buttarsi nella neve e rialzarsi!

A un certo punto i segni delle motoslitte prendono una direzione diversa da quella del sentiero, che conosco per aver fatto più volte, ma senza neve. Seguiamo il sentiero e saliamo al Cavalmurone, senza particolare fatica. In alcuni punti, c'è così tanta neve che i paletti che delimitano i confini in cresta sono sommersi, si intravedono a malapena. Abbiamo un buon passo, e raggiungiamo la prima delle due vette del Cavalmurone, a 1662 metri. Da qui scattiamo qualche immagine dei tetti delle case di Cosola, così lontane e così in basso da mettermi quasi le vertigini. Voltandoci indietro, possiamo vedere l'Ebro e il Chiappo, con il rifugio sulla cima che si intravede a malapena, sommerso di neve.

Tra la prima e la seconda cima del Cavalmurone, ci infiliamo in una conca naturale sul fianco del sentiero, dove la tanta neve caduta ha creato delle pareti così alte che "sembra di essere in un canyon", dice Francesca. Metto lo zaino a terra, a fare da "cavalletto" per la macchina fotografica, e ci facciamo un autoscatto, con il meraviglioso sfondo della neve a farci da contorno. Ridiamo, siamo felici, e ne approfittiamo per farci qualche foto a vicenda, poi ci rimettiamo in cammino, fino alla seconda cima del Cavalmurone, dove incontriamo un'escursionista che sta percorrendo il sentiero nella direzione opposta. La salutiamo, e affrontiamo la prima discesa della giornata.

Il sentiero scende e risale velocemente, verso il Monte Legnà. Francesca mi fa notare che gli alberi di fronte a noi disegnano con la loro ombra dei tratti sulla neve che sembrano fatti da una matita. La salita non è faticosa, si scivola solo un po' in alcuni punti perché le ciaspole non fanno molta presa sulla neve fresca. Senza salire in cima al Legnà, del quale poco distante possiamo vedere la croce posta sulla vetta, seguiamo il sentiero sulla sinistra, e ci fermiamo alle pendici del Legnà, a 1648 metri, in uno stupendo punto panoramico, per goderci la nostra meritata colazione, perché "siamo a metà sentiero", le dico, facendo una previsione tra le più sbagliate nella storia dell'umanità.

Mentre lei si siede, io le scatto qualche foto, poi la raggiungo e ci sediamo fianco a fianco sulla neve. Di fronte a noi il Monte Alfeo in tutta la sua imponenza, il minuscolo paesino di Pizzonero e sotto di noi i tetti delle case di Bogli. E' il momento del cioccolato, che prendo dal mio zaino, mentre lei pensa alla focaccia e alle colombine pasquali ripiene di nutella, che mi ha promesso ma che non mi ha mai fatto assaggiare, la  maledetta. La colazione si protrae più del previsto, si sta bene qui seduti al sole e poi abbiamo anche parecchia fame. D'altra parte è quasi mezzogiorno. Quando ci alziamo e ripartiamo, col sedere congelato dalla neve, non sappiamo minimamente quello che ci aspetta.

La discesa verso il Passo del Legnà non è semplice. Da qui in poi non ci sono più segni di impronte e la neve è fresca, in alcuni punti ammucchiata in cavalle. Nel primo tratto di discesa, mi partono i piedi e faccio un discreto volo sul ghiaccio, salvando la macchina fotografica ma rompendomi praticamente la schiena. Il sedere, congelato da prima, non ha avvertito l'urto, addormentato com'era ancora.

Il protocollo delle nostre giornate insieme, prevede che quando si cade bisogna rimanere immobili per consentire all'altro di fotografare e ridicolizzare in pubblico chi è caduto. Così rimango immobile, mentre lei mi scatta le foto, e ne approfitto per fotografarla dal basso della mia caduta, dal livello del suolo.

Superato il Passo del Legnà e la stradina che collega Bogli a Cartasegna, entriamo nel bosco per seguire il sentiero che faccio solitamente. Sui tronchi degli alberi si intravede il segnavia bianco-rosso da seguire, ma a terra non ci sono impronte, se non quelle di qualche animale che ci ha preceduto. La tanta neve caduta ci obbliga inoltre a camminare su di una superficie obliqua, dove non è affatto semplice stare in piedi. Procediamo un po', ma poi le segnalazioni sugli alberi finiscono e il sentiero diventa di fatto irriconoscibile.

Che nervoso, torniamo indietro. Prendiamo l'altra strada, quella che passa fuori dal bosco. Meno male che un'alternativa c'è sempre, in montagna.

Per scendere dal boschetto verso la strada che ora dobbiamo prendere, l'unica alternativa è appoggiare il sedere per terra e lasciarsi scivolare giù. Lei l'ha già fatto mentre io mi stringevo le ciaspole e non ho potuto vederla. Ora è lì che mi aspetta al varco, con il telefono pronto a registrare il video della mia discesa rovinosa sulla neve. Maledetta, la odio sempre di più. Ormai abbiamo una competizione sfrenata quando siamo insieme. Appoggio il sedere per terra, lancio giù le racchette e mi lascio andare, scivolando tra gli alberi come un sacco di patate, mentre lei se la ride sotto ai baffi. Mi alzo fradicio di neve, con le mani ibernate e mi volto per insultarla, ma per un qualche miracolo divino lei si è sbagliata e non ha registrato la mia caduta, così posso riderle un po' in faccia.

Ripartiamo vah, che è lunga ancora. Il sentiero ora scende leggermente, mostrandoci sulla destra un bello scorcio del paesino di Cartasegna, con i tetti rossi già ripuliti dalla neve. Attraversiamo un pianoro, poi il sentiero si fa più stretto ed inizia a salire tra gli alberi. A entrambi "non piace la gente", ne parlavamo in macchina salendo, e io le racconto alcuni comportamenti assurdi di persone che conosco, così per farsi due risate. "Tu un po' attiri le pazze" mi dice lei. "Certo" le rispondo io "è sufficiente che guardi con chi sei in questo momento". Proseguiamo ridendo, davanti a noi, le impronte sproporzionate di qualcuno che ci ha preceduto: ciaspole enormi e bastoncini enormi. Fatichiamo a seguire il suo passo, abbiamo le gambe troppo corte e dobbiamo inventarci dei passi nuovi tra un segno e l'altro delle sue ciaspole.

Siamo stanchi, iniziamo a parlare di meno. Inizia un'altra salita, faticosissima, nella neve fresca. Usciamo dal bosco e raggiungiamo il cartello che ci ricorda che almeno fino a qui, al Poggio Rondino (1543 metri), ci siamo arrivati. Non so se vivi o morti, ma ci siamo arrivati.

Guardiamo l'ora, è tardi. Il cartello indica ancora 45 minuti per arrivare al Monte Carmo e stanno arrivando dei nuvoloni neri che non promettono nulla di buono. Che facciamo?

Siamo simili in questo, perché entrambi pensiamo che se siamo arrivati fino a qui, è un peccato fermarsi. Però se uno dei due dicesse di tornare indietro, credo che l'altro non si opporrebbe.

Ripartiamo, in salita, verso la cima del Poggio Rondino, che poi tagliamo sul fianco, camminando su una neve così morbida che quasi si fatica a restare in piedi. Siamo distrutti, non alziamo più i piedi.

Sulla nostra sinistra, i monti Pecoraia, Zovallo, Busasca e Ronconovo, ricoperti di neve che si lascia intravedere sotto agli alberi spogli. Quando il sole li illumina, è una meraviglia. Io e lei ci fermiamo incantati a guardare quello spettacolo: sembra un ricamo. Gli alberi, che diventano più fitti in corrispondenza della costa dei monti, sembrano quasi dei contorni di un disegno ripassati con la matita.

La neve farinosa mi si ferma sotto alle ciaspole gelando istantaneamente e creandomi un "tacco" che mi alza ogni passo di qualche centimetro. Io ogni due-tre passi, scrollo i piedi per fare staccare il disco di neve gelata che mi si è formato sotto alle ciaspole. Lei usa la poca forza che le è rimasta per dirmi che assomiglio ai gatti quando si bagnano le zampe e le scrollano. Scoppiamo in una risata che ci dà ancora la forza per proseguire.

Io barcollo, non sono molto stabile, ma ormai è deciso, al Carmo ci arriviamo.

Quando arriviamo sotto alla salita finale, vediamo che ancora non ci è passato nessuno e con queste cavalle di neve, salire richiederà il doppio della fatica. Io apro la strada, davanti, lei da dietro mi spinge con le mani per non farmi scivolare. Siamo ridicoli, se qualcuno ci vedesse riderebbe come un matto. Ci fermiamo a metà salita e lei mi scatta qualche foto, poi riprendiamo, per gli ultimi metri, fino a che intravediamo la punta della croce. Arriviamo in cima, a 1642 metri, gettiamo a terra zaino e bastoncini, ed esclamiamo "mai più!!". Sono le 14,30.

Dal Carmo il panorama è splendido. La selvaggia Val Boreca e l'Alta Val Trebbia sono separate da una catena di montagne, mentre dalla parte opposta si vedono i confini estremi dell'Alta Val Borbera. Lei si siede sulla base della croce, io scatto qualche foto ai paesini di Suzzi e Bertone, poi mi siedo accanto a lei. Le nuvole hanno coperto il sole e l'aria gelida ci taglia la schiena a metà. Apro il vino e ci diamo subito un bel golone, per scaldarci un po'. Taglio il salame, mentre lei tira fuori il pane e iniziamo il nostro pranzo, che oggi dovrà per forza di cose essere più veloce, vista l'ora e la strada che dobbiamo ancora percorrere.

Mentre mangiamo, rivolti con lo sguardo verso il punto da cui siamo partiti, mi racconta un po' di lei, del suo lavoro e della casa che sta cercando. Io la ascolto, assicurandomi che almeno nel weekend torni a casa, perché mi rendo conto che la sua compagnia mi mancherebbe. Vorrà mica abbandonare il suo amico montanaro?

Tagliamo la fontina, e giù un altro golone di vino. Alle nostre spalle, le nuvole nere hanno fatto scomparire la cima dell'Antola, mentre poco più a destra, si intravede il mare, con la luce rossa del sole del pomeriggio che riflette sull'acqua. Tiro fuori il binocolo, per avere conferma che sia effettivamente il mare. Continuiamo a parlare, ma nonostante il vino stentiamo a scaldarci, l'aria è veramente fredda. Ci allacciamo tutto il possibile, ma abbiamo i brividi. Cerchiamo di bere più vino possibile, vuotiamo a terra quello che è rimasto e richiudiamo gli zaini, bisogna ripartire. Ci alziamo e ci facciamo qualche autoscatto, con la faccia congelata dal freddo, poi ci rimettiamo in cammino. Lei barcolla, credo che non sopportasse più quel freddo, come del resto io. Ma forse anche quel vino ha fatto la sua parte, perché lei prende parte e va, da sola.

"Vuoi le chiavi della macchina?" le urlo. Lei sorride e si ferma ad aspettarmi, la raggiungo velocemente e scendiamo insieme dal Carmo, mentre alle nostre spalle le nuvole nere sembrano quasi camminare più forte di noi. A parte qualche ramo cattivo che le attraversa la strada (ma forse era il Dolcetto di Ovada), il primo tratto della strada del ritorno passa piuttosto velocemente. Sorridiamo guardando le nostre impronte e le traiettorie che abbiamo seguito negli ultimi metri del viaggio di andata: traiettorie totalmente inventate, senza un minimo criterio. Ci credo che eravamo stanchi, barcollavamo da una parte all'altra allungando il percorso.

Lei mi dice "Dovremmo creare un altro blog, un controblog! Dove raccontiamo esattamente tutte le cose che sono successe e che ci diciamo". "Ci vorrebbe una videocamera, allora, o un registratore!", le dico. Davvero, nel mio racconto tante volte si perdono poi dei momenti esilaranti, ma che non si possono raccontare. Però rimarranno comunque dei momenti nostri, che solo noi abbiamo vissuto e ricordiamo, è bello anche questo.

Alle nostre spalle, il Carmo è ormai lontano. Il cielo ha cambiato colore: guardando in direzione del mare, un fitto strato di nuvole nasconde il sole, i cui raggi filtrano però al di sotto illuminando le montagne, con un effetto ottico meraviglioso.

Arriviamo piuttosto velocemente al Poggio Rondino, continuando a prenderci in giro sul percorso che abbiamo seguito all'andata, in perenne competizione. Lei si butta sulla neve per creare un altro disegno "Voglio fare l'omino che corre!" mi dice, dimenandosi sulla neve in posizioni assurde. Io rido come un matto, la fotografo con le lacrime agli occhi. Sembra un pupazzo, mi fa morire. Quando si alza, nota che non è rimasto granché del suo corpo sulla neve, perché era ghiacciata. Solo disegni stranissimi.

Ripartiamo, verso il passo del Legnà, che raggiungiamo in fretta e senza una fatica esagerata, anche se siamo ovviamente stanchi per tutti i km che abbiamo percorso fino ad ora. Quando lo raggiungiamo, ci fermiamo a bere e guardiamo la salita di fronte a noi: sarà durissima, è una salita infinita.

Di colpo, crolla l'entusiasmo. Saliamo lentamente, appoggiandoci ai bastoncini, con le ciaspole che affondano nella neve e ci fanno scivolare ad ogni passo. Ci fermiamo spesso a prendere fiato, mentre è uscito di nuovo il sole a scaldarci. A metà della prima salita del Legnà, lei mi lancia qualche maledizione per la strada che le ho fatto fare, poi si ferma. Io la raggiungo e appoggio la testa sulle sue spalle, stanco morto, lei si lascia andare e si appoggia a me. Avrei voglia di abbracciarla, non so se per scusarmi o per ringraziarla per tutto quello - fatica compresa - che abbiamo condiviso in questa giornata che ancora non è finita.

Ci facciamo un autoscatto, senza neanche la forza di sorridere. Ripartiamo e con una fatica immensa arriviamo alle pendici del Legnà, al punto panoramico dove all'andata avevamo fatto colazione.

Ci buttiamo a terra, stremati. Beviamo, mangiamo un po' di cioccolato, poi ci corichiamo sulla neve, guardando il cielo azzurro e le nuvole che lo attraversano veloci. Ho freddo, mi stanno venendo i brividi. Dobbiamo ripartire, è già ora.

Scendiamo dal Legnà e risaliamo velocemente al Cavalmurone, per fortuna questa salita è piuttosto breve, ma Francesca ormai mi odia. Ogni tanto apre mezza bocca per lanciarmi qualche insulto, io la guardo e rido, come uno che sa di averla fatta grossa. Mentre ci dirigiamo verso la prima cima del Cavalmurone, cambia la luce: ormai sono le cinque e venti. Le nuvole aumentano, il sole alle loro spalle regala delle immagini meravigliose. Il vento inizia a trascinare un po' di neve, le previsioni lo avevano detto.

Scendendo dal Cavalmurone, ci ritorna improvvisamente la voglia di parlare, mentre alla nostra sinistra sta per iniziare un tramonto mozzafiato. La stanchezza si placa per un attimo, parlando affrontiamo gli ultimi metri con meno pensieri per la nostra condizione fisica. Cade un nevischio sottile ma fitto, sospinto dal vento, mentre all'imbocco della Val Borbera il cielo diventa sempre più rosso, schiacciato tra le nuvole nere da una parte e il cielo sereno dall'altra, con quella luce stranissima che si vede solo poco prima che diventi buio. Il sole si abbassa sempre di più, fino a spuntare sotto alle nuvole, illuminando tutte le montagne dell'Alta Valle. Ci fermiamo a scattarci qualche foto di fronte a questa meraviglia. Anche lei è rimasta colpita dalla bellezza di questo panorama: sono certo che questa sorpresa inaspettata le abbia fatto diminuire l'arrabbiatura nei miei confronti per la fatica che le ho fatto fare. Io sono così colpito da questa meraviglia, che quasi non me la prendo quando lei mi dice che è interista (cose da pazzi).

Ormai siamo quasi alla macchina. Lei mi stupisce dicendomi che potremmo ciaspolare ancora, nelle prossime settimane. "Si ma facciamo un giro più corto!" la interrompo io, per cercare di salvare il salvabile. Sono contento che voglia venire ancora, avevo paura che dopo questa fatica non mi volesse più vedere. Parliamo un po' dei prossimi weekend, io le dico che quando vuole, ci sono. Non è semplice trovare persone con cui si va così d'accordo, io con lei sono stato davvero fortunato e non vorrei dover tornare a camminare da solo.

E poi siamo come cane e gatto, credo che se qualcuno dall'esterno ci vedesse, si ammazzerebbe dal ridere!

Arriviamo alla macchina, dopo esserci tolti le ciaspole: ormai è diventato buio del tutto, sono le sei e mezza, e sulla macchina c'è un sottile strato di neve. Saliamo e accendiamo subito il riscaldamento, indirizzando l'aria calda sui piedi e sulla faccia, siamo ancora tutti infreddoliti e bagnati. E' la prima volta che faccio questa strada con tutto questo buio, poi ci vedo anche poco e meno male che lei mi aiuta ad evitare i sassi che ci sono sulla strada, che è  lunga. Le racconto un po' del mio lavoro, non mi capita spesso di avere qualcuno con cui sfogarmi. Lei mi ascolta, nonostante la stanchezza. O quanto meno sembra che mi ascolti. Io sono stanco, forse dico anche delle cose senza senso, non lo so. Parliamo a voce bassa, quasi che col buio non si possa gridare troppo. Ma forse è la stanchezza che ci ha tolto anche la voce.

La chiama la sorella, per sapere se è ancora viva. Chissà quante me ne diranno quando arriverà a casa, credo che stasera mi fischieranno le orecchie! Arrivati a San Sebastiano, ci salutiamo e ci dirigiamo ognuno verso casa propria. Arrivo a casa alle 8 di sera, non ho nemmeno la forza di scaricare le ciaspole e i bastoncini dalla macchina. Una doccia infinita, poi mi stendo sul divano. Suona il telefono, è Francesca che è arrivata a casa. Stanca com'era, avevo paura si addormentasse per strada. Ok, ora posso dormire io: la stufa a pellet è carica e fuori inizia a nevicare. Domani potrò tenere il pigiama per tutto il giorno.

A un passo dalla vetta
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