DA BELNOME A TARTAGO
Alla scoperta di Tàrtago, borgo dell'appennino piacentino dove il tempo pare essersi fermato
PARTENZA: Belnome (Pc)
ARRIVO: Tàrtago (Pc)
LUNGHEZZA DEL PERCORSO: circa 4 km tra andata e ritorno
TEMPO DI PERCORRENZA: 2 h. circa, tra andata e ritorno
SEGNAVIA: bianco-rosso 121
Bello eh, il bianco della neve. Ma dopo un po' stufa. Diamo un po' di colore a questo blog, torniamo in estate. Ho fatto questa escursione nello scorso mese di agosto, in una giornata calda e soleggiata come ce ne vorrebbero adesso, soprattutto per il nostro umore.
Quando ho un attimo di tempo libero, mi piace girovagare senza una meta sul web, alla scoperta di qualche posto interessante nei dintorni da visitare (a piedi, possibilmente).
Sono rimasto colpito da un paesino particolarissimo, che sembra finito nel territorio delle quattro province per puro caso, visto che è diverso da tutti gli altri: Tàrtago.
Tàrtago si trova nella valle del fiume Boreca, in provincia di Piacenza. Distantissimo, voi direte.
No, qua dietro. E io me ne sono innamorato.
Per arrivare a Tàrtago, uno dei sentieri più percorsi è quello che parte da Belnome, frazione del Comune di Ottone, sempre in provincia di Piacenza. Abbiamo già parlato di Belnome qui, quando proprio da questo paesino ho descritto la salita al Monte Alfeo.
Per raggiungere Belnome (895 mt. s.l.m.), in auto, occorre un po' di tempo. E' bene quindi mettersi in marcia presto, di prima mattina. Come in gran parte delle escursioni in questa zona, diamoci un punto di ritrovo: Capanne di Cosola, il valico dove si incontrano le province geografiche di Alessandria e Piacenza, raggiungibile risalendo la val Borbera.
Da Capanne di Cosola, scendiamo verso Capannette di Pey e quindi, giunti al passo del Giovà, prendiamo la strada che scende sulla destra in direzione di Pej e Vesimo. Come già detto, questa strada è veramente ai limiti della transitabilità, strettissima, ripida e piena di tornanti. Un incubo. Ma se vogliamo andare a Belnome, è proprio qui che dobbiamo passare, quindi avanti.
Dopo aver superato il paese di Vesimo, proseguiamo in discesa fino ad incontrare, sulla destra, il bivio per Belnome, che nel frattempo vediamo di fronte a noi, baciato dai primi raggi del mattino.
Arriviamo a Belnome già stanchi, il viaggio in auto è più faticoso di quello a piedi. Parcheggiamo lungo la strada: finalmente ora si scende, scarponi e via.
Davanti alla chiesa di Belnome, anziché prendere il sentiero che sale, sulla destra, verso il Monte Alfeo, ci dirigiamo a sinistra in discesa, in mezzo alle case. Proprio su una di esse (numero civico 57), in sasso, è disegnato il rettangolino bianco-rosso con il segnavia numero 121. E' il sentiero per Tàrtago.
Passiamo in mezzo alle case, i cani abbaiano, due anziani signori seduti sulle scale di casa ci fermano: "Andate a Tàrtago?" "Si - rispondiamo - è lunga?" "No, un'ora e ci arrivate" "Due ore - incalza l'altro - ci vogliono due ore per andare a Tàrtago". Bene, hanno le idee chiare, pensiamo.
Su una cosa però sono d'accordo "State attenti che a Tàrtago vi danno da bere il vino brusco!"
Una risata rimbomba tra i cortili delle case, li ringraziamo e ci rimettiamo sul sentiero.
Poco fuori dal paese, sulla destra del sentiero, un antico lavatoio in pietra a due arcate, riporta una targa in legno con il nome del paese, il numero del sentiero (121) e la dicitura "Acqua potabile. Spese di Costruzione lire 7.120. San Marco, 1912". E' l'antico lavatoio di San Marco, recentemente ristrutturato, che ora ospita anche dei tavoli in legno, delle panche e una griglia, per gli usi che potete ben immaginare.
Oltre il lavatoio, il sentiero inizia a scendere più ripidamente e attraversa un rio con un ponticello traballante, dopo il quale ci troviamo di fronte una fontana dietro alla quale, da una parete di roccia, si può assistere ad una suggestiva colata di acque magnesifere. E' una cosa quantomeno particolare, che non ho mai visto in altre escursioni.
Il sentiero ora sale leggermente tra gli alberi e mano a mano che procediamo, tra le foglie, intravediamo dei suggestivi scorci di Belnome, rispetto al quale, nel frattempo, ci siamo portati esattamente di fronte. Ma non solo, perché tra i rami degli alberi, di tanto in tanto, sbuca la cima del Monte Lesima, con il suo radar a forma di palla e mentre si procede per lo stretto sentiero, si intravede anche il paese di Zerba, con la chiesa e i due nuclei di case che lo compongono.
In alcuni punti, il sentiero tende a franare e bisogna fare particolare attenzione. Infatti è molto stretto, attraversa numerosi rii e se soffrite di vertigini (come il sottoscritto!) a volte è meglio non guardare in basso...fidatevi.
Nonostante questo piccolo imprevisto, proseguiamo senza particolare fatica su di un tranquillo falsopiano, aggirando i ripidi versanti del Monte Alfeo, per poi innestarci su di un altro sentiero proveniente dal basso, che pare provenire dal torrente Boreca. A questo punto riprende a salire leggermente, transitando quindi sotto una parete di rocce.
Un muretto, in lontananza, ci fa pensare di essere arrivati. Ci siamo quasi, in effetti.
E' il muretto del piccolo cimitero di Tàrtago, sul quale trova posto una lapide, scolorita, dedicata al cappellano di Tàrtago R.do Giovanni Queirolo, scomparso nel 1867.
Poco oltre il cimitero, inizia - sulla sinistra - una staccionata in legno che ci preannuncia l'ingresso in paese. Dopo una leggera curva del sentiero, ecco di fronte a noi Tàrtago (708 mt. s.l.m.).
Che sia un paese particolare lo si capisce subito, da una prima occhiata in lontananza. Il paese sembra un balcone, affacciato sulla val Trebbia, appoggiato sul versante del Monte Alfeo. Sotto di noi, si vede Cerreto.
Proseguiamo avvicinandoci al paese: l'antica chiesa di San Giovanni Battista, che svetta sulle altre costruzioni, ha una caratteristica facciata a vela e un campanile a punta, diverso da tutti quelli che siamo abituati a vedere in queste zone.
Le case sono in pietra a vista, i tetti in ardesia. Sembra di essere tornati indietro nel tempo. Vorremmo scattare qualche foto particolare, ma purtroppo il contrasto tra queste costruzioni e le auto parcheggiate sotto di esse, è troppo evidente. Infatti è agosto, tanta gente è ritornata al paese, si sente un gran vociare.
Ci avviciniamo alla piccola piazzetta del paese, c'è un gruppo di persone sedute sui muretti, stanno parlando.
Ci guardano un po' storto, forse non gradiscono troppo la visita.
Proseguiamo addentrandoci tra i vicoli del paesino, alle case tradizionali ne seguono altre più recenti. Ci sono numerosi portichetti, sotto ai quali si scorgono alcuni dipinti raffiguranti immagini sacre, oltre agli attrezzi di una volta, per il lavoro nei campi.
Di fronte all'ultima casa del paese, a terra una pentola con gli avanzi per i cani, con un paio di scarponi sporchi di fango e un bastone. Non è ancora mezzogiorno, eppure la cena per qualcuno sembra già vicina.
Cerchiamo ancora qualche scorcio interessante da fotografare, c'è uno strano gioco di colori tra la pietra delle case, l'ardesia dei tetti, il verde intenso dei boschi che fanno da sfondo e il cielo blu d'agosto. Non voglio perdermelo, anche perché magari passerà un po' di tempo prima che io possa tornare a Tàrtago.
Ripassiamo nella piazzetta, le persone sono ancora lì che parlano. Ci salutano a stento, per un attimo pensiamo che i due anziani signori di Belnome avessero ragione.
Per precauzione, non ci avviciniamo a chiedere un bicchiere di vino.
Risaliamo verso la cima del paese, e mentre stiamo per imboccare la stradina che riporta a Belnome, sentiamo una voce che ci chiama. Un anziano signore, con il volto scavato dagli anni e dalla fatica (ma in compenso con un paio di occhiali da sole da ragazzino..!), ci chiama per fare due parole. E' in un terreno, sta armeggiando con qualche strano attrezzo, probabilmente ha quasi finito di lavorare e sta tornando a casa per il pranzo. Però ha voglia di parlare, così ci avviciniamo.
Ci racconta di com'era Tàrtago una volta, dello sviluppo delle città che ha portato al progressivo spopolamento di questo angolo di paradiso. Ora in estate ritornano, ma per gran parte dell'anno Tàrtago è un paese fantasma. Anche lui se ne è dovuto andare: "S'um vena una sciupùn", qui non c'è neanche il medico che mi cura.
Tutti se ne sono andati al paese più vicino, i giovani addirittura in città. Sono proprio i giovani, secondo lui, ad avere la colpa dell'abbandono dei paesi di montagna. Non pensano più alle cose semplici - "alla semensa", come dice lui - a lavorare per ricavare il massimo possibile da un territorio che si ama e che non deve essere abbandonato. "Pensano ad andare dove trovano le cose già pronte", dice, mostrando un certo orgoglio per essere una persona che col sudore si è conquistato tutta la sua vita, pezzo dopo pezzo, in barba alla povertà dei tempi.
Capiamo quello che vuol dire, anche se si esprime per metà in italiano e per metà in un dialetto che conosciamo poco. E' triste vedere questi paesi "morire" per dieci mesi all'anno, per andare ad appiattirsi in città. Lo sviluppo non sempre porta sviluppo, ma in alcuni casi - come questo - porta ad allontanarsi dai veri valori della vita. Almeno, questo è quello che penso io.
Mentre parliamo con l'anziano contadino, veniamo interrotti dai rintocchi del campanile della chiesa di San Giovanni Battista, che ci avvisano che è mezzogiorno. Rimango per un attimo appoggiato alla staccionata, in silenzio, ad ascoltare il suono delle campane che rimbombano tra i versanti delle montagne.
Potrei rimanere qui tutto il giorno, immobile.
Quando le campane smettono di suonare, salutiamo l'anziano e riprendiamo il sentiero verso Belnome. Ci fermiamo poco più in là, all'ombra di una pianta, per mangiare qualcosa.
E' passato da poco mezzogiorno, la giornata è ancora lunga. [Qui la seconda parte del racconto]